La Repubblica interviews Viet Thanh Nguyen for their weekly cultural magazine, Il Venerdì
C ome il Capitano del suo libro più famoso, Il simpatizzante, anche Viet
Thanh Nguyen ha “due facce”. Una è quella del bambino che a quattro anni
viene accolto con la famiglia in America, che cresce recitando il
Giuramento di Fedeltà, che crede nella promessa in3nita di opportunità,
libertà, felicità del Sogno Americano. L’altra è più tragica e dimessa. È la
faccia di chi, in un campo profughi di Fort Indiantown Gap, viene strappato
alla famiglia e dato in a8do a una coppia di estranei. È la faccia di chi a
otto anni vede “Ba” e “Má”, papà e mamma, presi a rivoltellate nella
drogheria di famiglia; di chi si sente dire, a scuola,«scherzo cinese, faccia di
maionese»; di chi sperimenta la «brutalizzazione selettiva di migranti e
rifugiati, cioè quelli con la pelle più scura», operata «da presidenti
democratici e repubblicani»; di chi realizza che nella vita dei rifugiati «non
c ‘è nulla di divertente», ma non se ne lamenta, perché essere rifugiati
signi3ca «vivere nel presente sentendo sempre il passato, come un’ombra,
come un’ossessione».
Questa storia di ambiguità e contraddizioni è raccontata in Io sono l’uomo con due facce. Storia. Memoria. Ricordo (Neri Pozza), il bellissimo mémoir in cui Nguyen – premio Pulitzer con Il simpatizzante, autore di opere che intrecciano gusto del racconto e riflessione su identità e alterità come Il militante e I rifugiati – cerca di dare un senso ai propri ricordi e al proprio posto nel mondo. Il libro è anzitutto «un omaggio a mia madre, a quello che ha dovuto passare», confessa lo scrittore dalla sua casa di Los Angeles. Il libro è un viaggio tra le ombre della memoria, le amnesie della Storia, il senso del Sogno Americano. Il libro è soprattutto il riconoscimento che non esiste io senza noi e che ogni essere umano, in particolare il rifugiato, è parte di una storia molto più grande: quella di «civili,donne e bambini, che hanno provato più orrore e visto più terrore di molti soldati».
Viet Thanh Guyen, in questa ricerca di memoria, qual è il suo primo ricordo?
«È un trauma. Al momento dell’arrivo negli Stati Uniti dal Vietnam, siamo stati divisi. Ogni membro della mia famiglia è stato assegnato a sponsor diversi. Ricordo soprattutto una sensazione 3sica. Le urla, il pianto per la separazione dai miei genitori».
Come “Sogno Americano” non è un grande inizio.
«Sono la personi3cazione di una situazione molto comune. E cioè, una persona che arriva qui non perché attratta dal Sogno Americano, ma per una serie di circostanze avverse che gli Stati Uniti, tra gli altri, hanno contribuito a creare».
Il Sogno Americano si basa sulla cancellazione del passato del migrante, del rifugiato?
«Ci sono ricordi che il Sogno Americano ammette. Tra questi, gli orrori del Paese d’origine, le sofferenze cui i nuovi arrivati sono sottoposti in America.
Ci sono ricordi che non sono ammessi.
Sono quelli che hanno a che fare con il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. L’America chiede ai migranti un’amnesia parziale, che è poi la stessa su cui si fonda il Sogno Americano. C’è la libertà e la promessa di vita. Non ci sono i genocidi, la colonizzazione, la schiavitù, che però sono parte integrante della storia americana».
Quanto è durato il suo Sogno Americano?
«La mitologia del Sogno Americano è di una potenza incredibile. Mi ci sono voluti decenni per interrogarmi sul mio posto nella società americana, sulla contraddizione che segna me, come milioni di altri uomini e donne. Cerchiamo disperatamente di far parte di un Paese, che è spesso responsabile del forzato abbandono dei nostri luoghi d’origine».
C’è una “versione asiatica” del Sogno Americano?
«Sì. Siamo quelli che lavorano sodo, quelli che eccellono negli studi. Siamo rispettosi. Non creiamo problemi. Il nostro Sogno Americano è però segnato da una profonda ansia. La nostra lealtà è continuamente messa in discussione. Saremmo duplici, incapaci di integrazione. La versione asiatica del Sogno Americano è segnata dal sospetto e dall’angoscia dell’appartenenza. A chi apparteniamo? Siamo veri americani? Ciò ci rende più scettici nei confronti del Sogno Americano, ma alimenta anche uno sforzo continuo e disperato di adeguarsi a esso».
Il “virus cinese”, la definizione che Donald Trump dava del Covid, è una rielaborazione di questo pregiudizio?
«Sì. Quando scoppia una crisi come la pandemia, che può essere in qualche modo associata con l’Asia, con la Cina, tornano a galla i sospetti sulla presunta minaccia che rappresentiamo per l’economia, la salute, i valori americani.
Trump non fa niente di nuovo. Peraltro, non lo fa soltanto con gli americani di origine asiatica. Lo fa con gli ispanici che passano la frontiera. Lo fa con le donne. Lo fa con le persone queer, con i transgender. Tutta la sua politica è centrata sulla minaccia all’America».
Perché, nonostante i problemi con la giustizia, nonostante l’indignazione che molte sue posizioni sollevano, Trump potrebbe tornare alla Casa Bianca?
«Trump è molto bravo a usare la paura. La paura di chi teme per la propria cultura. La paura di chi teme che gli immigrati rubino i posti di lavoro. La paura per la concorrenza cinese. C’è poi un tema di potere. Trump dà a questi americani l’impressione di riprendere il controllo. C’è una parola oggi che, più di ogni altra, riassume le paure americane. “Invasione”». “Invasione” è stato tra i leitmotiv alla recente Convention repubblicana di Milwaukee. «Sì, ed è assurdo. Gli immigrati, gli asiatici, i rifugiati non hanno mai invaso gli Stati Uniti. Gli unici ad aver invaso – altri Paesi o questo Paese – sono gli Stati Uniti, sono i colonizzatori bianchi. Il potere della retorica trumpiana sta nel proiettare all’esterno cose che gli americani hanno fatto agli altri. Trump consente agli americani di dimenticare o ignorare la complessità della Storia americana, le sue colpe e tragedie. È la sua forza».
Percival Everett è suo collega alla University of Southern California.
Come lei, si è occupato di temi legati all’etnia e all’identità. Da una sua opera, Erasure, è stato tratto un 3lm, American Fiction – come dal suo Il simpatizzante è stata tratta una serie tv. In che modo l’alterità di un afroamericano è diversa dall’alterità di una persona di origini asiatiche?
«Ci sono due peccati originari nella nostra Storia. Il genocidio dei nativi americani. La schiavitù dei neri. Un americano non può prescindere da quanto fatto ai neri. La questione è sempre aperta. Il senso di colpa è sempre lì. Noi asiatici siamo relativamente invisibili. Non solleviamo sensi di colpa.
Serviamo anzi ad assolvere il senso di colpa dei bianchi, che possono dire: “Guardate cosa sono diventati gli asiatici. È la prova che non siamo razzisti”.
Alla 3ne, siamo dei privilegiati rispetto ai neri. Il nostro trauma è legato al passato. Il trauma degli afroamericani è infinito, come Percival racconta bene».
Il 5 novembre gli Stati Uniti avranno una donna, asiatica e nera, candidata alla presidenza. Quanto è davvero significativo, per l’America?
«Quanto a rappresentazione simbolica, è fantastico. Non penso però che cambierà molto. Kamala Harris è ovviamente meglio di Trump. Ma pensiamo a Barack Obama: è stato di enorme importanza per l’eguaglianza dei neri e per una ride3nizione del Sogno Americano. Con Obama, il capitalismo Usanon è però cambiato. Il ruolo degli Stati Uniti come potere globale non è cambiato. Temo che, nel caso Harris diventasse presidente, avverrà lo stesso.
Solo un esempio: la questione Gaza e il rapporto con Israele. Sono convinto che Harris manterrà la politica di Joe Biden. Quindi, sono felicissimo se ci sarà una presidente nera e asiatica. Non mi faccio però illusioni quanto a una maggiore eguaglianza economica per l’America o a veri benefici per il mondo.
Una presidenza Harris sarebbe more of the same. Più o meno, la stessa minestra». «quelli come me non saranno mai del tutto accettati» dice lo scrittore premio pulitzer, mentre esce un nuovo libro in cui racconta la sua esperienza di rifugiato.«Harris presidente È la stessa minestra…».