Winner of the Pulitzer Prize

INTERVIEW WITH VIET THANH NGUYEN

Anna Lattanzi interviews Viet Thanh Nguyen about his writing and novels in this article for Mangialibri.

Incontro Viet Thanh Nguyen, apprezzato scrittore vietnamita-statunitense, al Salone del Libro di Torino 2019, elegante nel suo abito scuro, con un fare inizialmente serioso, che si scioglie in una stretta di mano e un sorridente buongiorno pronunciato con allegra convinzione. Mi guarda curioso, lo scrittore americano dall’anima pregna del suo amore doloroso per il Vietnam e del coraggio di esprimere dignitosamente sempre la propria opinione. Una penna potente e combattiva quella di Nguyen, che sembra quasi essere in contrasto con lo sguardo e i modi di fare imperturbabili che lo accompagnano, capaci di infondere una pacata serenità, a dispetto di quanto la sua vita e le sue esperienze raccontano.

Cosa vuol dire essere vietnamita in America e quanto è difficile o è stato difficile per te? 
Penso che i vietnamiti abbiano un posto molto speciale in America e soprattutto nell’immaginario americano, quindi il mio ruolo nel Paese, in quanto vietnamita e considerate le conseguenze della guerra, è davvero particolare. Mi chiedo a volte cosa sentano gli americani, cosa percepiscano. Credo che da un lato avvertano un certo senso di responsabilità per gli accadimenti legati al conflitto in Vietnam e dall’altro sentano il peso di un forte senso di colpa. D’altro canto molti rifugiati vietnamiti in America si sentono profondamente grati per essere stati salvati dagli americani durante la guerra. Io no, io ho una posizione diversa: sono uno scrittore e in quanto tale mi relaziono in modo differente con la storia. Penso, infatti, che i rifugiati vietnamiti non dovrebbero sentirsi così grati, perché se gli Stati Uniti non fossero intervenuti a priori in Vietnam, forse non sarebbero stati costretti a scappare dal loro Paese. Personalmente ritengo di avere una relazione speciale con la storia e con la mia identità e nei miei libri e nei miei scritti cerco di essere sempre molto critico.

Il simpatizzante è un libro di memoria politica, I rifugiati è un libro di memoria popolare. Qual è la differenza tra le due memorie?
Non sono nato scrittore, ho imparato a scrivere e mentre ero impegnato nella stesura delle storie brevi che compongono I rifugiati la mia preoccupazione era riuscire a comporre bene ogni racconto. Sembra semplice, ma non lo è: volevo esprimere l’umanità dei vietnamiti e l’umanità dei rifugiati e soprattutto volevo che la mia storia trasmettesse emozioni. Dopo aver terminato ho iniziato a scrivere Il simpatizzante e non mi sono più preoccupato di raccontare l’umanità del popolo vietnamita, perché era una cosa che davo per scontata e ho cercato, quindi, di narrare esattamente l’opposto, cioè la non umanità del popolo vietnamita. Noi tutti proveniamo da diversi Paesi, da diverse culture, da diversi angoli del Pianeta e dobbiamo avere ben presente l’antitesi tra umanità e non umanità. La non umanità caratterizza Il simpatizzante, che perciò diventa un romanzo politico e un contenitore delle idee e dei punti di vista di diverse nazioni, quali il Vietnam, l’America o la Francia. Un concentrato di quelle stesse opinioni che hanno dato origine al conflitto. Per tutti questi motivi, lo definirei un romanzo critico e politico e io mi auguro che in quanto tale possa avere il potere di offendere qualcuno. Aggiungo che la memoria spesso è un rivivere gli accadimenti e gli avvenimenti bellici: come dico in Niente muore mai. Il Vietnam e la memoria della guerra, nulla c’è di più vero nell’affermazione che le guerre vengano combattute due volte, la prima sul campo di battaglia e la seconda nei ricordi. Anche in questo libro parlo di guerra, memoria e identità.

La crisi dei rifugiati è una tematica annosa: mi interessa conoscere la tua opinione su quello che è o potrebbe essere il potere della scrittura in tale contesto… 
Penso che il potere dello scrittore in questo caso specifico e in generale sia piuttosto limitato. Quello che possiamo fare come scrittori è impegnarci a essere testimoni, capaci di riportare fedelmente tragedie e accadimenti. Quello che è importante è il saper descrivere sia il lato eroico, relativo a tutto quello che i rifugiati stanno vivendo per poter uscire da questa situazione, sia il lato disumano, ossia la risposta dei Paesi più riluttanti ad accogliere i rifugiati o a prestare aiuto. Io in quanto rifugiato, ricordo molto bene quell’esperienza e in quanto scrittore, cerco di tenere ben presenti nella mia mente i sentimenti e le mie emozioni come rifugiato. Personalmente mi sforzo di tenere vivo il ricordo delle esperienze dei miei genitori e di tutta la comunità in cui sono cresciuto. Rivivo costantemente quelle emozioni e cerco di trasmetterle nelle mie storie, augurandomi che i lettori possano instaurare un legame con le vive emozioni che provo a infondere e che possano riconoscersi in quel tipo di storia.

Sei impegnato in diverse iniziative per diffondere la scrittura vietnamita negli Stati Uniti: quanti consensi e quali difficoltà incontri in questa tua missione? 
Io penso che ci siano tante persone impegnate come me in tal senso. Viaggio molto e questo mi permette di entrare in contatto con tantissima gente: giro l’America e trovo interessante osservare le reazioni, quando durante qualche mio convegno o durante qualche mia lezione, mi esprimo in maniera decisa sulla politica americana e dico che ciò che sta facendo l’America rispetto alla gestione dei profughi è completamente errato, dico che separare i genitori dai figli al confine è un trattamento disumano. Quando mi esprimo in questi termini, ottengo due tipi di reazioni: o un grande e sentito applauso, oppure il silenzio. Ad oggi rimane un argomento molto delicato da affrontare negli Stati Uniti e la mia posizione su queste questioni è piuttosto chiara, ma la maggior parte degli americani ha difficoltà a capire e accettare l’umanità di questi rifugiati, che attraversano il confine americano, forse perché in passato gli Stati Uniti hanno invaso il loro stesso Paese. Penso che la legge americana che regola la gestione dei confini vada radicalmente modificata ed è importante per me come scrittore sottolineare questa necessità, proponendo delle valide alternative alle direttive vigenti. Non posso certo prevedere se la mia proposta sarà seguita o meno, bisogna però provarci. Pertanto incontro tanti consensi e altrettante difficoltà, ma vado avanti sempre.

Stai lavorando alla stesura del sequel de Il simpatizzante. Qualche anticipazione? 
Sì lo confermo, sono arrivato alla stesura di tre quarti del sequel, che auspico di terminare a breve. La storia parte con la nostra spia che si ritrova a Parigi negli anni Ottanta e da qui iniziano le sue nuove avventure e disavventure. Sono diversi gli argomenti che affronto nel mio nuovo libro, dal colonialismo francese, alle questioni di razza e naturalmente alle tematiche politiche.

Cosa riscriveresti del tuo percorso come scrittore? 
Cosa riscriverei della mia storia di scrittore? Quando frequentavo l’università, avevo la speranza e un po’ la fantasia di riuscire a pubblicare i miei romanzi verso la fine dei miei vent’anni o al massimo poco più che trentenne e che poi sarei diventato sicuramente famoso e i miei libri sarebbero stati da subito apprezzati in tutto il mondo. Non è andata affatto così. Tra i venti e i trent’anni sono riuscito a pubblicare qualche scritto legato alla mia esperienza accademica, ma ci sono voluti ben tredici anni per iniziare con i miei lavori di fiction come romanziere e per pubblicare Il simpatizzante. Questo significa che i miei romanzi sono usciti quando avevo all’incirca quarant’anni: ammetto di aver molto sofferto quando ero piuttosto giovane e mentre imparavo a scrivere. In quel periodo mi sentivo nell’ombra, mi sentivo rifiutato. Cosa farei di diverso? Assolutamente nulla. Tutta questa fatica mi ha fatto comprendere due cose: prima di tutto che ciò che è fondamentale per uno scrittore è saper scrivere, non importa quanto sia grande la fama, né la celebrità. La seconda cosa è che il danaro che oggi ho e un pizzico di successo che mi sono guadagnato, non hanno cambiato nulla del mio rapporto con la scrittura. Se il successo e la fama che ho oggi l’avessi raggiunta a vent’anni non avrei saputo gestirla: non mi rimane quindi che apprezzare tutta la fatica che ho fatto, perché mi ha insegnato a essere umile.

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