Telling Vietnam refugees: meeting with the Pulitzer Prize author Viet Thanh Nguyen

Matilde Quarti interviews Viet Thanh Nguyen, Pulitzer Prize-winning author of The Sympathizer for il Libraio.

“Mi sembra che al giorno d’oggi ci sia ancora così tanta paura per i nuovi rifugiati perché i Paesi che li accolgono non riescono a vederli come esseri umani, ma solamente come una minaccia. Per questo credo che ci sia ancora bisogno di storie umane e che libri come ‘I rifugiati’ abbiano senso. Perché parlano di cosa significhi essere sradicati, essere ostracizzati, e cercare di rifarsi una vita in situazioni particolarmente complicate”. Il Premio Pultizer Viet Thanh Nguyen racconta a ilLibraio.it la sua storia di scrittore e rifugiato politico e riflette sulla guerra del Vietnam – L’intervista

Viet Thanh Nguyen è diventato un autore di culto a seguito della vittoria del Premio Pulitzer 2016 con il romanzo Il simpatizzante (in Italia pubblicato da Neri Pozza). Un testo complesso e avvincente, in cui thriller e spy story si combinano con la più complessa tematica storica della guerra del Vietnam e delle sue conseguenze.

Con la raccolta di racconti I rifugiati, scritta in realtà precedentemente nonostante sia stata pubblicata a due anni di distanza dal Simpatizzante, Viet Thanh Nguyen affronta in modo più sistematico la condizione dei rifugiati vietnamiti dopo la fine del conflitto. I racconti sono ambientati principalmente negli Stati Uniti – ma non solo – e in decenni diversi, espediente che ha permesso a Viet Thanh Nguyen di raccontare sia le problematiche immediatamente successive alla conclusione della guerra, sia l’elaborazione del trauma e le condizioni di vita dei rifugiati nei decenni successivi.

I rifugiati è stato tra i finalisti dell’edizione 2018 del Premio Bottari Lattes Grinzane, nella sezione Il Germoglio, pensata per accendere i riflettori sui alcuni dei testi più interessanti “sbocciati” nell’ultimo anno.

In occasione dell’evento conclusivo del Premio, abbiamo incontrato Viet Thanh Nguyen per intervistarlo a proposito dei Rifugiati e della complessa eredità che ci ha lasciato la guerra del Vietnam.

Sia con Il simpatizzante sia con i racconti de I rifugiati lei sceglie di raccontare l’esperienza della guerra e di chi è costretto a fuggire evitando opposizioni nette tra “buoni” e “cattivi”. Tutti i suoi personaggi hanno dei caratteri molto complessi, carichi di contraddizioni. L’unico modo possibile per raccontare eventi storici così grandi e drammatici è, forse, proprio attraverso le contraddizioni?
“Non so se sia l’unico modo per farlo, ma è quello che mi interessa, perché penso che i più grandi eventi storici siano intrinsecamente contraddittori. Spesso siamo coinvolti da avvenimenti come guerre e crisi dei rifugiati, perché queste contraddizioni sono già in noi come individui, e sono intrinseche ai nostri Paesi e alle nostre culture. Gli Stati Uniti, per esempio, sono un Paese molto contradditorio: dovrebbe essere il Paese della libertà, ma è anche quello dell’imperialismo militare. E il Vietnam era un Paese che stava combattendo per la libertà e l’indipendenza, eppure le persone che portavano avanti questa rivoluzione non credevano nella libertà e nell’indipendenza del proprio popolo, lo volevano soltanto indipendente dai francesi e dagli americani.
In virtù della mia storia individuale, e in quanto persona cresciuta negli Stati Uniti, riesco a rendermi conto facilmente di queste contraddizioni. E siccome sono uno scrittore di fiction, non mi interessa creare personaggi non contraddittori, non avrebbe senso farlo. Proprio perché lo sono le nostre nazioni e lo siamo noi stessi. Spesso non sappiamo in cosa consistano queste contraddizioni, esattamente come molti americani e molti vietnamiti non sono stati capaci di vedere quelle delle loro società”.

Lei è arrivato negli Stati Uniti quando era ancora molto piccolo, e da adulto ha cominciato a raccontare la sua esperienza attraverso la scrittura.
“Come molti scrittori ho iniziato a scrivere semplicemente perché amo la letteratura e amo le storie. Tutti quelli che poi diventano scrittori sono immersi nei libri e cercano rifugio nella propria immaginazione; ma credo che per me ci sia un motivo più specifico: i miei genitori erano troppo impegnati per potersi prendere cura di me. Ero lasciato da solo e i libri non erano soltanto una fonte di immaginazione e di piacere, ma anche un modo per sfuggire alla condizione difficile di rifugiato. Sono cresciuto desiderando di diventare uno scrittore sia perché trovavo piacere nella scrittura e nella lettura, sia perché avevo l’urgenza di raccontare le storie dei rifugiati, e di conciliare la storia di questi due Paesi, il Vietnam e gli Stati Uniti, a cui appartengo. E per diventare uno scrittore mi sono servite due cose: imparare a scrivere fiction, e imparare a conoscere meglio me stesso dal punto di vista interiore”.

Ci spieghi meglio.
“I miei ricordi d’infanzia iniziano quando avevo quattro anni, era il periodo in cui dal Vietnam sono arrivato negli Stati Uniti. Per sopravvivere ho dovuto evitare di pensare alle vicende traumatiche che ho vissuto, ma per diventare scrittore, sfortunatamente, bisogna pensare alle esperienze che provocano dolore. La maggior parte delle persone non vogliono farlo, e per delle ottime ragioni, ma io ho scoperto che per riuscire a scrivere fiction dovevo sentire qualcosa di profondo. Certo, i miei personaggi sono differenti da me e hanno attraversato esperienze diverse, ma condividiamo una sorta di sentimento, che dovevo avvertire prima su di me per riuscire a darlo ai miei personaggi. Dunque dovevo tornare agli avvenimenti della mia infanzia, guardarli e guardare dentro di me ancora più nel profondo, per provare a capire quello che mi è successo e in che modo mi abbia influenzato. E questa mia storia io sono riuscito ad articolarla dal punto di vista emozionale solo quando sono diventato scrittore.”

Nessuna storia esisterebbe senza una lingua con cui raccontarla, e lei scrive in una lingua che non è quella dei suoi genitori. Ci parla del suo rapporto con la lingua inglese?
“Sono cresciuto capendo che dovevo scegliere tra due lingue. Avrei potuto provare a parlarle entrambe, ma avevo paura che così sarei stato mediocre in tutte e due. Credo che fin da piccolo io abbia capito che l’inglese era la lingua degli Stati Uniti e sentivo che per appartenere agli Stati Uniti dovevo padroneggiarlo. Anche per diventare uno scrittore dovevo farlo, perché l’inglese era il linguaggio del potere, in quel Paese ma anche in tutto il mondo. Sono diventato uno scrittore anglofono perché era più naturale per me, e mi vedevo parte di quella tradizione letteraria. Ma sapevo anche che scrivere in quella lingua mi avrebbe dato l’opportunità di rivendicare la mia identità americana e di provare agli altri americani che lo ero tanto quanto loro. Ed è ironico che io scriva molto a proposito di Vietnam, ma non in vietnamita, e che è proprio il fatto che io lo faccia in inglese che dà accesso ai miei libri in tutto il mondo. I miei libri sul Vietnam, insomma, hanno più impatto della letteratura che viene direttamente dal Vietnam, ed è ironico e tragico al tempo stesso”.

Tutti i personaggi dei racconti presenti ne I rifugiati vivono qualche tipo di sradicamento, dal giovane Liem che si trova a chilometri di distanza con la sua famiglia e scopre diversi modi di vivere la sessualità, alla protagonista del racconto The Americans, americana appunto, che sceglie di trasferirsi in Vietnam.
“Credo che tutti i rifugiati avvertano uno sradicamento dal loro Paese d’origine, ma che si sentono anche sradicati dal Paese in cui vivono e, spesso, anche dalle proprie famiglie. Perché le loro vite vengono completamente stravolte da questa esperienza e i genitori non riescono più a comprendere i figli e i figli a loro volta non comprendono i genitori. Questo sradicamento, pur appartenendo in molto specifico a chi è rifugiato, è anche allo stesso tempo universale, perché la maggior parte di noi ha sentito un qualche tipo di sradicamento in un dato momento della propria vita. La differenza, credo, è che per i rifugiati questo stato è percepito alla sua massima potenza, e di conseguenza la mia sfida in quanto scrittore è quella di riuscire a collegarlo con quell’esperienza di sradicamento occasionale, che è universale e può essere provata da tutti. Per questo motivo, ne I rifugiati, era importante avere dei personaggi non vietnamiti: volevo mostrare che le persone possono essere empatiche le une con le altre attraverso sentimenti condivisi.”

Un altro aspetto interessante è che i suoi personaggi “rifugiati”, salvo che nel primo racconto o nelle parole della signora Hoa, non parlano mai esplicitamente della guerra e dei traumi subiti. Vengono seguiti anni dopo, in una quotidianità in cui l’esperienza traumatica è tuttavia sempre presente pur non venendo nominata. Ci parla di questa “eredità”?
“Ho impiegato diciassette anni nella stesura de I rifugiati, perché stavo imparando a scrivere e stavo cercando di imparare ad affrontare le emozioni umane. E ho deciso che avrei scritto a proposito dell’esperienza dei rifugiati e che mi sarei focalizzato soprattutto su quello che era successo loro dopo che la guerra era effettivamente finita. L’altra ragione è che io non avevo mai sperimentato la guerra per davvero [era troppo piccolo, N.d.R.]: molti autori di storie di guerra, per esempio, l’hanno vissuta direttamente, come soldati o come civili. Per questo mi ci è voluto davvero molto tempo prima che fossi pronto per parlare della guerra, ed è stato quando ho pubblicato Il simpatizzante, che in realtà ho scritto dopo I rifugiati.”

Ci si riferisce sempre ai soldati come a degli “eroi”, lei con i suoi racconti porta la dimensione eroica nella vita di chi non ha scelto di attraversare terribili avventure ma è stato costretto a farlo.
“Sono cresciuto in una comunità di rifugiati, dove era chiaro che la guerra aveva colpito chiunque, non solo i soldati. Molti soldati sono rimasti profondamente scossi dalla guerra, ma la stessa cosa vale per tutti gli altri: donne, bambini, civili. E io volevo raccontare che questo è ciò che la guerra provoca: molte persone, quando pensano alla guerra, pensano solamente ai soldati, e in generale ai maschi, ma se si guarda alla guerra del Vietnam, ci si rende conto che, come è tipico dei conflitti del Ventesimo secolo, ha ucciso più civili che soldati. Quindi, in questo libro e negli altri, ho voluto sottolineare che dobbiamo avere una maggior conoscenza della guerra, che non è fatta solo di battaglie, soldati, e maschi.
Quando guardo ai miei genitori, penso che abbiano vissuto una vita davvero eroica. Sono stati rifugiati nel 1954, e poi di nuovo nel 1975, hanno lavorato sodo per costruirsi una vita in Vietnam, e dopo lo hanno fatto di nuovo da capo negli Stati Uniti. Hanno avuto esperienze terrificanti e hanno visto molte più cose di quante non ne abbia viste la maggior parte dei soldati: c’era bisogno che questo andasse riconosciuto. Se rifletto su quello che è successo alla popolazione vietnamita, penso che i rifugiati siano stati davvero eroici. Centinaia di uomini e donne sono dovuti scappare, e metà di loro non è sopravvissuta al viaggio: sapevano che c’era questo rischio, ma lo hanno fatto lo stesso. E se gli scrittori, gli artisti e i registi raccontassero questo aspetto, credo che i rifugiati verrebbero rappresentati come eroi, ma nessuno lo fa. Quindi voglio fare in modo che ci si rapporti a queste persone – i civili e i rifugiati – in termini allo stesso tempo più umani e più eroici”.

Lei racconta i rifugiati vietnamiti degli anni Settanta, pensa che il libro abbia implicazioni anche per quanto riguarda la nostra politica attuale e l’odissea che sono costretti a vivere oggi i rifugiati siriani, del Medio Oriente, o, per quanto riguarda l’Italia, africani?
“Credo di sì. Mi sembra che non sia così diverso da quello che accade oggi. Quando i rifugiati vietnamiti hanno cominciato ad arrivare in tutti i Paesi vicini – in Malesia, in Indonesia, a Hong Kong, eccetera – venivano spesso trattati molto male, e i governanti non volevano accettarli per le stesse ragioni che sentiamo oggi. Gli Stati Uniti si sentivano in colpa per questa guerra, e quindi hanno accettato centinaia di migliaia di rifugiati, nonostante la maggior parte degli americani non li volesse davvero accogliere perché si sentivano minacciati per motivi economici o politici. Ma c’è anche una grande differenza rispetto a quanto accade oggi: la guerra del Vietnam era entrata nell’immaginario collettivo, tutti erano solidali con il popolo vietnamita, mentre oggi molti Paesi e molte persone non si sentono responsabili per quello che sta succedendo nel mondo. I rifugiati non è un libro esplicitamente politico, ma si focalizza sulle vicende umane dei personaggi, perché i rifugiati che ho visto e conosciuto sono semplicemente persone, comprensibili nei loro desideri, nelle loro tragedie e nei loro sentimenti, e non riuscivo a capire perché gli americani ne fossero spaventati. E mi sembra che al giorno d’oggi ci sia ancora così tanta paura per i nuovi rifugiati perché i Paesi che li accolgono non riescono a vederli come esseri umani, ma solamente come una minaccia. Per questo credo che ci sia ancora bisogno di storie umane e che libri come I rifugiatiabbiano senso. Perché parlano di cosa significhi essere sradicati, essere ostracizzati, e cercare di rifarsi una vita in situazioni particolarmente complicate”.

Inoltre, i cambiamenti climatici in atto impongono una riflessione sulle migrazioni che ci saranno nei decenni futuri.
“Sì. Le persone non vogliono pensarci, non vogliono pensare al cambiamento climatico, né alle sue conseguenze. Quando ci si riferisce a una guerra, è molto più semplice pensare a chi ne ha responsabilità, ma nel caso del cambiamento climatico sono tutti responsabili, in particolar modo territori più sviluppati come l’Europa e gli Stati Uniti. È quindi un problema che va affrontato come pianeta, non come singole nazioni. Si tratta di una questione civile: non si possono costruire muri per fermare i rifugiati climatici. Dobbiamo iniziare a pensare urgentemente a come cambiare i nostri comportamenti e parlarne ad alta voce”.

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