Winner of the Pulitzer Prize

Viet Thanh Nguyen a «Letterature» Lasciare casa, per trovarne una

Luca Briasco for Corriere Della Sera sits down with Viet Thanh Nguyen at the International Literature Festival of Rome 

Il testo inedito che il premio Pulitzer leggerà giovedì 13 luglio alla XVI edizione del Letterature Festival Internazionale di Roma, ideato e diretto da Maria Ida Gaeta.

Pubblichiamo il testo che lo scrittore Viet Thanh Nguyen legge giovedì 13 luglio alla Basilica di Massenzio, Foro romano (ore 21), nell’ambito del Letterature Festival Internazionale di Roma. La manifestazione, alla sua XVI edizione, è ideata e diretta da Maria Ida Gaeta con la regia di Fabrizio Arcuri

«Non so se quello che sto per dirle le sembrerà un’idiozia ma la domenica mattina, quando andavamo allo zoo con mio padre, gli animali erano più animali, la solitudine da spaghetto della giraffa assomigliava a quella di un Gulliver triste, e dalle tombe del cimitero dei cani venivano fuori ogni tanto dei guaiti infelici di barboncino. L’odore era quello dei corridoi all’aria aperta del Coliseu, il circo d’inverno, pieni di strambi uccelli inventati in gabbie di rete, struzzi simili a professoresse di ginnastica zitelle, pinguini gottosi con l’andatura di vecchi bidelli con i calli ai piedi, cacatoa con la testa inclinata come visitatori di musei; nella vasca degli ippopotami lievitava la lenta tranquillità della grassezza, i serpenti si attorcigliavano in molli spirali stronzesche e i coccodrilli si abbandonavano con naturalezza al loro destino terziario di lucertole patibolari.»
(Antonio Lobo Antunes, In culo al mondo, p. 1 )

Ho letto questo libro nell’estate del 2011, mentre lottavo con tutte le forze per trovare il tono giusto per il mio romanzo, Il simpatizzante. Mi ero imbattuto per caso in una recensione dedicata a una nuova traduzione del primo romanzo di Lobo Antunes, incentrato sulle sue esperienze di medico durante la guerra coloniale portoghese in Angola. La storia era narrata dal punto di vista surreale del medico, un vecchio alcolista donnaiolo e disilluso, e ho pensato immediatamente che quel romanzo potesse fare al caso mio. Avevo ragione. Lobo Antunes mi ha elettrizzato come non mi era accaduto con nessun romanzo letto di recente, e lo ha fatto sul piano della lingua.

Per spiegarvi quella che secondo me è la ragione di tanto entusiasmo, devo tornare indietro lungo il corso della mia vita, fino a un tempo e a un luogo lontanissimi dal mondo di Lobo Antunes. Forse c’era un’unica cosa che mi accomunava al narratore di Lobo Antunes: a diciassette anni non vedevo l’ora di andar via di casa, anche se ero molto più fortunato di tante altre persone che conoscevo. Mio padre e mia madre non avevano commesso alcun misfatto nella nostra casa, che si trovava a San Jose, in California, Stati Uniti, una città meglio nota per fungere da dormitorio alla Silicon Valley. La nostra prima casa si trovava in centro, nei pressi di una rampa d’accesso all’autostrada, e dalla finestra della mia camera da letto potevo vedere i fanalini di coda dalle auto che sfrecciavano. Sognavo di seguirne la scia, e di decollare insieme a loro. La nostra seconda casa era in un posto più tranquillo, ai piedi delle colline; mio padre ci abita ancora, e tiene nella sua stanza un computer e una fotocopiatrice prodotta negli anni Ottanta.

Non c’erano maltrattamenti in casa nostra, e c’era sempre cibo, calore, luce e religione. C’era anche amore, di quel genere silenzioso che si esprimeva senza parole e abbracci, ma attraverso il sacrificio e il modello offerto dai miei genitori, con le loro vite tutte assorbite dal senso del dovere: le giornate di lavoro al negozio di alimentari, che potevano durare dalle dodici alle quattordici ore, senza quasi vacanze; la devozione alla chiesa; i soldi spediti ai parenti disperati che vivevano ancora in Vietnam negli anni del dopoguerra; la routine tipica di tutte le famiglie di rifugiati.

E tuttavia, pur non avendo bisogno di niente, volevo qualcosa di più, anche se non sapevo esattamente in che cosa consistesse. All’atto di andarmene di casa, comunque, sapevo per certo di volerne trovare un’altra, che mi sarei creato personalmente. Proprio a causa dei sacrifici sopportati dai miei genitori aspiravo a più di quanto potessero darmi, o di quanto la comunità di San Jose o quella dei rifugiati vietnamiti potessero offrirmi. Ai miei occhi di adolescente, San Jose era una città noiosa in cui i desideri rientravano sempre in una routine: si aspirava tutt’al più a una casa nei sobborghi o a potersi comprare le merci più costose, mai a nuove idee, o a tutto ciò che era “cultura”. Per me, la cultura coincideva con il mondo di cui leggevo nei libri e che vedevo nei film, le fascinose fantasie bianche di Parigi e New York, dove mi attendevano grandi avventure.

La cultura della San Jose che conoscevo, quella vietnamita, non era né fascinosa, né fantastica. La comunità vietnamita era segnata a fondo dai legami di parentela e dal senso di un’identità comune, ma anche dalle conseguenze della guerra, che si traducevano in rabbia, violenza e amarezza. Era stata la guerra a fare dei miei genitori due negozianti che faticavano da mane a sera nella loro bottega, dove un giorno, la Vigilia di Natale, subirono una rapina a mano armata. La diffidenza nei confronti dei loro connazionali li aveva indotti a mettermi sull’avviso: se un vietnamita fosse venuto a bussare alla nostra porta, non avrei dovuto aprire per nessun motivo, o avremmo rischiato di ritrovarci casa invasa (quando accadde e ci trovammo una pistola puntata in faccia, la mano che stringeva l’arma apparteneva a un uomo bianco). Il trauma che avevo ereditato era così recente da generare un’atmosfera soffocante e da farmi sentire confinato tra le quattro pareti della casa dei miei genitori, della comunità vietnamita e di San Jose.

Non lo sapevo ancora, ma volevo una casa che non avesse pareti né confini. Per alcuni, le pareti e i confini sono un motivo di conforto e non un limite, perché consentono di tener fuori certe cose, o di tenerne dentro altre. Nella mia qualità di rifugiato in America, e di perfetto estraneo agli occhi di molti americani, sapevo, senza riuscire a esprimerlo a parole, di essere un escluso. Nel mio istituto superiore, frequentato quasi solo da bianchi, i pochissimi tra noi che erano asiatici si riunivano a ora di pranzo in un angolo, e si autodefinivano «l’orda asiatica». Sarei potuto diventare uno di questi estranei invasori che volevano soltanto entrare, a qualunque costo. Ma da quando avevo visto un cartello sulla vetrina del negozio accanto all’alimentari dei miei genitori, sul quale c’era scritto, «Un altro americano fallito per colpa dei vietnamiti», avevo intuito che per entrare si sarebbe dovuto pagare un prezzo molto alto.

Ora che siamo comodamente sistemati tra quattro mura, con un mutuo da pagare, potremmo essere tentati di chiuderci la porta alle spalle. È quel che fanno alcuni ex rifugiati vietnamiti, quando dichiarano che gli Stati Uniti non dovrebbero accogliere i nuovi rifugiati che arrivano dalla Siria o dal Medio Oriente. Hanno torto, e dimenticano che un tempo erano loro i rifugiati, e che la maggioranza degli americani voleva rispedirli indietro. Non hanno nulla di speciale o di eccezionale: hanno solo avuto la fortuna di poter beneficiare del senso di colpa degli americani (per aver abbandonato il Vietnam del Sud) e dei loro calcoli politici (accogliere dei rifugiati provenienti da un paese appena caduto nelle mani dei comunisti era semplicemente l’ennesima mossa strategica all’interno della cosiddetta Guerra Fredda, che per noi non avrebbe potuto essere più calda). A differenza di chi è convinto che le case servano per tenere la gente fuori, io credo che dovremmo tenere la porta aperta, o addirittura abbattere ogni muro.

Anche la casa che ho trovato, e che è fatta di parole e di racconti, ha le sue quattro mura. Per potervi entrare è necessario saper leggere e parlare inglese, una precondizione che potrebbe renderla inospitale. Ma nessuno è escluso a priori, a cominciare da me. Ho trovato il modo di entrarvi imparando a leggere, a scuola, e grazie ad alcuni dipendenti della biblioteca pubblica. La biblioteca è stata letteralmente la mia seconda casa, ed era anche la casa dei libri grazie ai quali ho scoperto la libertà e la possibilità di spiccare il volo. Andare in biblioteca era sempre un’avventura: ogni tanto erano i miei genitori ad accompagnarmici, ma il più delle volte ci andavo da solo, dopo la scuola o nei fine settimana. Le alternative erano una casa deserta, un frigorifero pieno e un televisore. Preferivo andare in biblioteca, a piedi, impiegandoci mezz’ora da scuola o un’ora da casa, o spendendo dieci centesimi di autobus. E tornavo dalla biblioteca con lo zaino pieno di tesori che mi sarebbero bastati per una settimana intera.

Quei libri e quelle storie erano scritti in una lingua, l’inglese, con la quale i miei genitori erano costretti a lottare ogni giorno, anche se le fatiche per impossessarsene non avevano impedito loro di fare una serie di cose inimmaginabili ai miei occhi: arrivare in un paese straniero dopo aver perso quasi tutto e riuscire a rimettersi in sesto lavorando sodo. Se quei libri e quelle storie sono stati anche la mia seconda casa, hanno però contribuito ad allontanarmi dai miei genitori: più il mio inglese migliorava, più mi scordavo il vietnamita.

Ripensando al passato, mi rendo conto di aver fatto una scelta quando ero ancora un bambino, senza mai ammetterla a voce alta: tagliar fuori la mia lingua madre, il vietnamita, e prendere possesso della lingua del luogo in cui ero nato, l’inglese. Non che fosse stato necessario tagliarla fisicamente, la mia lingua, ma l’esperienza ha lasciato comunque un segno profondo, destinato a durare tutta la vita. Penso a un’altra scrittrice proveniente dalla comunità dei rifugiati vietnamiti, Le Thi Diem Thúy, e a ciò che ha scritto nel suo romanzoIl Gangster che tutti cerchiamo: «Non c’è traccia alcuna di sangue se non qui, in fondo alla mia gola, da dove nasce quel che vi sto raccontando.» Lo stesso vale per me.

Ero nato sentendo parlare la mia lingua madre, crescendo ero passato alla lingua del mio paese di adozione, e da bambino ero convinto che non sarei mai tornato in Vietnam. Ero americano, ma gli Stati Uniti erano la mia seconda patria, e da piccolo c’era una sola cosa che desideravo con tutto me stesso: che diventassero casa mia a tutti gli effetti. C’era un unico modo per riuscirci: dichiararmi americano non solo attraverso i gesti, ma anche attraverso le parole. I gesti erano importanti, ma senza le parole non saremmo mai diventati parte di questo paese, perché non saremmo stati in grado di raccontare le nostre storie e così cambiare la Storia americana. Intuitivamente, sapevo che se mi fossi impadronito dell’inglese avrei potuto impadronirmi anche dell’America. Forse impadronirsi dell’inglese, una lingua che non mi apparteneva, aveva il sapore di un furto, e forse l’idea del furto era particolarmente eccitante.

Cosa ancor più importante, attraverso i libri e le storie scritte nella mia lingua di adozione avrei avuto a disposizione ben più dell’America. Visto il predominio delle storie americane a livello globale, cambiare la Storia americana era anche un modo per raggiungere il mondo intero. Oltre al potenziale che avevo scoperto nella scrittura, l’atto di leggere qualcosa in traduzione comportava che il mondo intero potesse diventare la mia casa, un luogo al quale nessuno avrebbe più potuto strapparmi fintantoché fossi rimasto vivo e la mia mente avesse potuto vagare liberamente. Per un rifugiato come me, che aveva perduto il suo paese d’origine e la sua lingua madre, una casa che fosse impossibile perdere era il modo ideale per sentirsi sempre al sicuro.

La percezione della lingua come mezzo per reclamare una casa e prenderne possesso era già evidente ai miei occhi in quanto esponente di una minoranza, e più nello specifico di una minoranza asiatica. Negli Stati Uniti, il modo più comune e più razzista di percepire gli immigrati provenienti dall’Asia ma anche gli asiatici nati in territorio americano, perfino se di quarta o quinta generazione, consiste nell’affermare che non apparteniamo all’America. Siamo condannati per l’eternità a restare stranieri, e a non poter mai diventare veri americani. Siamo il pericolo giallo o scuro, inscindibilmente legati a una terra d’origine o al popolo dal quale discendiamo: un destino che probabilmente condividiamo con tanti altri popoli gialli, scuri o neri in tutto l’Occidente.

Di fronte al razzismo di chi chiede di rispedirci da dove veniamo, rispondiamo che siamo già a casa nostra, non solo negli Stati Uniti, ma nella lingua inglese. La preoccupazione di essere senza una patria è un dato comune a tutto il genere umano, ma diventa particolarmente urgente per chi rischia di esserne privato per via della sua appartenenza a un gruppo. Ma chi ci dice di tornarcene a casa non rappresenta certo un ostacolo per quelli tra noi che possono controbattergli nella stessa lingua che viene usata per attaccarci. La bellezza del trovare la propria casa in una lingua sta proprio nella possibilità di creare una molteplicità di patrie, e un’infinità di modi per non averne una.

Queste riflessioni mi riportano ad Antonio Lobo Antunes. Io e lui non ci somigliamo. Siamo diversi per lingua, generazione, paese. Eppure quando ho letto i primi paragrafi del suo romanzo, tradotti meravigliosamente in inglese da Margaret Jull Costa, mi sono sentito a casa, e nel modo più intimo che si possa immaginare. Sono stato catturato dalla lingua, dal ritmo, dalle immagini. Io e Lobo Antunes siamo diventati un’unica cosa grazie alla lingua del suo romanzo, ed è proprio questo il sogno più grande della letteratura: unire persone diverse nello spazio condiviso della parola. Nella mia condizione di rifugiato, di straniero, di ragazzino solitario in America, era proprio questo che avevo sempre sognato: un modo per entrare in sintonia con gli altri.

Per il lettore, quando prende in mano un libro, l’autore rappresenta l’altro: e quando il lettore si imbatte in un autore che sa parlargli nel modo più intimo, l’esperienza somiglia molto a un innamoramento. Nel mio caso, mentre leggevo Lobo Antunes, riuscivo a pensare a una cosa sola: quale mente meravigliosa poteva aver concepito immagini perfette come queste: «struzzi simili a professoresse di ginnastica zitelle, pinguini gottosi con l’andatura di vecchi bidelli con i calli ai piedi, cacatoa con la testa inclinata come visitatori di musei»?

Il romanzo è pieno di immagini simili: fin troppo, forse, per molti lettori, e soprattutto per chi è abituato ad andare di corsa. La lingua di Antunes costringe il lettore a rallentare per godersi ogni passaggio, o a rifiutarsi di proseguire oltre. Il libro richiede una grande attenzione, e il lettore — almeno nel mio caso — non può concederne più di una certa quantità. Dopo due o tre pagine ero infatti costretto a fermarmi: non perché non mi piacesse la lingua, ma perché la amavo troppo. Se gran parte della letteratura può essere paragonata a qualunque bevanda che si collochi tra un tè tiepido e un caffè molto lungo, ogni pagina di Lobo Antunes era un caffè espresso e ristretto. E così ogni mattina ripetevo lo stesso rituale, facendo il pieno di caffeina e fermandomi solo quando mi rendevo conto che il piacere squisito della lettura mi aveva portato alla saturazione. A quel punto, con la mente e il cuore invasi dalla lingua di Lobo Antunes, mi mettevo al lavoro sul mio romanzo.

Leggere un’opera letteraria capace di animarmi è sempre un po’ come tornare a casa, perché la mia vera casa è la lingua. Nel caso di Lobo Antunes, la casa cui facevo ritorno era così speciale che posso dire, con piena certezza, di averla amata con tutto me stesso. Il fatto che quasi nessun americano avesse sentito parlare di Lobo Antunes, e che tanto meno lo avesse letto – fino a oggi, mi sono imbattuto in una sola eccezione – rendeva il mio rapporto con il romanzo ancor più speciale. Tanto più perché, quando ho scritto Il simpatizzante, non avevo in mente un esempio di Grande Romanzo Americano per lettori medi americani. Volevo scrivere una versione europea e modernista del romanzo americano: la versione di un outsider, motivata al contempo dall’amore e dall’odio, dall’invidia e dall’indifferenza, dall’ammirazione e dal rifiuto.

Per questo mi sono messo a rubacchiare da Lobo Antunes, assorbendo ogni mattina una dose del suo spirito così poco americano, e la punizione per il mio ladrocinio è stata il fallimento. La lingua de Il simpatizzante rappresenta solo una versione molto approssimativa della lingua di In culo al mondo. Nel confessarvelo, posso trasformare il mio tentato furto in qualcosa di differente: un dono ricevuto. Il suo libro era un dono, come lo sono tutti i buoni libri, e tutti gli atti d’amore. E la scrittura, a modo suo, è un atto d’amore. C’è in essa quanto meno l’amore per la lingua, e fors’anche l’amore di un lettore immaginario o di un pubblico di lettori, tutti destinatari della dedizione che lo scrittore mette nel suo lavoro.

Anche le case sono doni. I miei genitori mi hanno dato tantissimo, e quand’ero giovane non ho saputo apprezzare i loro doni quanto avrei dovuto. Volevo solo lasciarmi alle spalle la mia casa, con tutta la noia e l’istupidimento che le associavo, per lanciarmi in nuove avventure, senza apprezzare a sufficienza il fatto che i miei genitori di avventure ne avevano vissute un’infinità, e non volevano più neppure serntirle nominare. Erano sopravvissuti a una guerra lunga trent’anni, che aveva ucciso almeno tre milioni di persone, a una carestia che, ai tempi della loro giovinezza, aveva provocato un milione di morti, a due esodi, alla perdita di una vera e propria fortuna e a molte altre cose che ignoro. Ma per la stragrande maggioranza delle persone sono semplicemente dei rifugiati: gente in fuga da un piccolo paese il cui nome è diventato sinonimo di una guerra. Nessuno pensa ai rifugiati come a degli eroi. Eppure molti tra loro hanno dovuto sopportare tragedie ben peggiori rispetto ai tanti soldati che definiamo automaticamente eroi, anche se non hanno fatto nulla e hanno conosciuto ben poche sofferenze. I miei genitori non rappresentano certo un’eccezione.

Se però avessi apprezzato le loro battaglie epiche e silenziose, sarei rimasto a casa? E se fossi rimasto a casa, sarei mai diventato uno scrittore? Forse no. Probabilmente no. E in tal caso è stato comunque un bene che me ne sia andato, anche se nel farlo mi sono comportato come un ladro, rubando tutto ciò che i miei genitori mi avevano donato, tutto il loro amore e i loro sacrifici, per i quali avevano chiesto ben poco in cambio: solo che diventassi un medico. O un avvocato. O un sacerdote. Invece sono diventato uno scrittore: bel modo davvero, di ricambiare!

Ora che sono padre a mia volta, posso guardare al mio io più giovane con una forma di benevolenza. So che un giorno anche il mio amatissimo figlio se ne andrà, magari senza neppure voltarsi indietro, travolto dalla forza dei suoi desideri. Lo perdono fin da ora per quello che mi farà in futuro, quando si imbarcherà per le sue avventure, rubandomi così il cuore. E se mi è facile perdonarlo è perché so che anche io, come molti altri scrittori, ho dovuto lasciare la mia casa, per poterne trovare una.

Share

Subscribe
Notify of
guest

0 Comments
Inline Feedbacks
View all comments

More Interviews